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L’uomo invisibile

Non è un’impresa facile da realizzare. In parte perché il parco giochi di Whannell ha i suoi confini all’interno di una proprietà preesistente che dovrebbe essere gestita con cura – il classico pre-code di James Whale del 1933 circa, adattato dal romanzo di H.G. Wells del 1897 – cioè, se abbiamo imparato qualcosa dai vari remake poco brillanti degli ultimi anni. Ma soprattutto perché siamo nell’era di #MeToo, con i mostri del mondo reale, una volta protetti, che vengono finalmente esposti per quello che sono, i loro poteri terrorizzanti esaminati in film stupendi come “The Assistant” di Kitty Green – una rivoluzione a lungo ritardata che non dovrebbe essere sminuita o usata male. Fortunatamente, lo scrittore/regista australiano dietro i franchise di grande successo “Saw” e “Insidious”, è dotato sia di sufficiente brio visivo – “The Invisible Man” ricorda il capolavoro ambientato nella Bay Area di David Fincher “Zodiac” e la qualità pigra del raccapricciante “Terminator 2: Judgment Day” di James Cameron quando meno te lo aspetti – sia di idee fresche per modellare il classico mostro della Universal Movie con ansie senza tempo e attuali. E lo fa in modi sorprendentemente ben ponderati, aggiornando qualcosa di familiare con un approccio inventivo.

Non sarebbe una forzatura suggerire che parte di ciò a cui Green ha dato priorità con il suo capolavoro è anche ciò che conferisce a “The Invisible Man” (e alla fine, alla sua donna visibile derubata delle opzioni) la sua forza cumulativa: un’enfasi spietata sulla solitudine che la violenza emotiva genera nei maltrattati. C’è una costante in tutti i terrificanti pezzi di scena, montati con cura e diretti da Stefan Duscio con eleganti e intelligenti movimenti di macchina in camere da letto, soffitte, ristoranti e palazzi isolati: una vigile attenzione all’isolamento di Cecilia. Quell’isolamento, intensificato dalla partitura diabolica di Benjamin Wallfisch, è anche il coltello più affilato del suo assalitore nascosto. Un’arma mortale che gli altri si rifiutano di vedere e riconoscere.

Un sollievo è che Whannell non ci lascia mai in uno stato di smarrimento di fronte al suo thriller cattivo, bello e coinvolgente. Crediamo a Cecilia fino in fondo, quando altri, forse comprensibilmente, si rifiutano di farlo, mettendo invece in dubbio la sua sanità mentale. (Certo, “la donna pazza a cui nessuno darà ascolto” è un cliché sfruttato a lungo, ma state certi che, nelle mani di Whannell, questo bug by-design alla fine porta ad una conclusione profondamente meritata). E sì, almeno noi come pubblico siamo al suo fianco, fin dall’apertura tesa del film, quando Cecilia si sveglia con uno scopo a lungo perseguito accanto al suo nemico addormentato, ma senza mostrare tracce della fragilità di Julia Roberts. Invece, rileviamo in lei qualcosa di possente e vulnerabile allo stesso tempo, più vicino a Sarah Connor di “The Terminator” nello spirito, quando corre con forza attraverso i boschi per sfuggire al suo crudele compagno Adrian (Oliver Jackson-Cohen), viene raccolta da sua sorella Alice (Harriet Dyer) dopo alcune battute d’arresto e si rifugia dal suo migliore amico d’infanzia James (Aldis Hodge), un poliziotto pieno di risorse che vive con sua figlia adolescente Sydney (Storm Reid), che sogna di frequentare una scuola di design che non possono permettersi.

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